STORIA DEL DIALETTO TARANTINO / L'ALTO MEDIOEVO: TRA EVOLUZIONE E ARABISMI

08.10.2013 16:55


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di Aldo Simonetti

Viene quasi naturale chiedersi quale tipologia di dialetto si parlasse dalle nostre parti nel periodo successivo alla caduta dell'Impero, ossia nell'Alto Medioevo.

L'inesistenza di documentazioni relative alla fase linguistica in questione (il latino codificato viene utilizzato ad oltranza) rende difficile il compito di fornire un'adeguata risposta a tale quesito. 

Ad ogni modo, la prima testimonianza scritta in un idioma volgare, risalente all' VIII secolo potrebbe essere il celebre Indovinello veronese. 'Potrebbe' (l'impiego del condizionale è, in questo caso, del tutto appropriato), in quanto l'analisi di questi pochi versi riportati su un pezzo di pergamena lascia non poche perplessità tra filologi e linguisti di ogni sorta. In effetti, dinanzi a questo brevissimo testo (ancora oggetto di studi matti e disperatissimi, di leopardiana memoria) regna l'incertezza assoluta: trattasi di un latino evoluto ed infarcito di volgarismi, oppure di un chiaro esempio di lingua volgare che risente ancora della sua matrice latina? Un dilemma duro a risolversi.

Quel che tuttavia appare inconfutabile è che nei secoli bui si assiste ad un progressivo passaggio dal 'sermo vulgaris' (il latino parlato) ai primi dialetti italiani. Di conseguenza, in detto periodo inizia a delinearsi il quadro dialettale della Penisola, grazie all'azione delle lingue di superstrato, come quelle barbariche, e alla suddivisione del territorio in diocesi.

Se l' 'exemplum' di Verona può apparire un'inutile digressione nell'ambito della parlata tarantina, tuttavia fornirebbe una valida risposta alla domanda precedentemente posta. Da qui, pertanto, si potrebbe ipotizzare che i nostri antichi concittadini parlassero una propria lingua già distanziatasi dal latino, ovvero un latino evoluto (morfologicamente e, per certi tratti, foneticamente) e adorno di influssi esterni.

A proposito di Medioevo, nel IX secolo Taranto, vessata e saccheggiata da cima a fondo, cade nelle mani degli Arabi. Quantunque appassionati di storia locale- accecati dalla notizia sensazionale e pervasi da un senso di appartenenza alle proprie radici che va al di là della ragione- collochino in questo periodo la penetrazione di determinati lessemi provenienti dall'Oriente, è tuttavia il caso di far chiarezza. La presenza araba in città dura circa quarant'anni: un arco di tempo troppo breve perchè una lingua appena sovrappostasi possa influenzare la preesistente. Nemmeno sufficiente, d'altra parte, perchè una sola parola straniera possa incubarsi nel già consolidato linguaggio locale (tenendo conto dell' avversione della popolazione tarantina nei confronti dell'invasore).

Così, quei termini etimologicamente a loro attribuibili risultano frutto di importazioni successive: siciliane (in misura minore), spagnole e persino italiane.

Eccone un breve elenco:

'chiaùte' ('cassa da morto', da 'tabut' )

'cupète' ('specie di torrone', da 'cubbaita'-tramite forse il siciliano)

'percòche' ('pesca', da 'al-barquq', stante originariamente ad indicare la 'prugna')

'scarciòppele' ('carciofo', da 'harsuf')

'mamòne' ('persona molto brutta', da 'maimòn'- 'scimmia').

 

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